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in «La Repubblica», Napoli, 16 marzo 2014

 

Lo studio dello scultore Giuseppe Pirozzi, adiacente al Museo Archeologico, è uno spazio vasto e affollato. Entrando ci vengono immediatamente incontro statue di bronzo e di terracotta, volti, lettere dell’alfabeto e numeri incisi o a rilievo su sculture dove animali, lune, foglie racchiudono per l’artista pagine di vita che si richiamano alla sua produzione in bronzo ma anche in cemento o, con i suoi gioielli, in metalli preziosi. Siamo andati a trovarlo per fargli gli auguri in occasione dei suoi ottant’anni, che festeggerà nell’Accademia di Belle Arti. E gli abbiamo chiesto il perché della scelta del luogo. « Il perché è chiaro – ci risponde Pirozzi – è un necessario riconoscimento al luogo nel quale ho trascorso la maggior parte della mia vita, dove ho avuto maestri, colleghi e allievi. Soprattutto a questi ultimi sono molto legato e molti di essi mi frequentano ancora, vengono al mio studio, discutiamo… Se non ci fossero strane leggi legate all’età anagrafica e non alla passione e alla professionalità, io in Accademia ci starei ancora volentieri ed ho voluto esserci in questo giorno di festa, grazie all’invito della direttrice Spinosa e di tutti i miei colleghi che ancora mi stimano e mi vogliono bene». Una parte dello studio è riservato a Clara Garesio, sua moglie e compagna di vita, ceramista per vocazione e per professione (insegnava al liceo le tecniche della porcellana di Capodimonte), di origine torinese, ma che aveva scelto Amalfi e Vietri come terre d’elezione per dar corpo alla sua fantasia di forme e colori e che ha ripreso a far mostre grazie al soprintendente Zampino, che l’ha sempre stimata. Ottant’anni sono anche momento di bilancio di una vita intera dedicata all’arte e Pirozzi non si sottrae a un’analisi che parte da lontano: «Abbiamo cominciato a lavorare fin dagli anni Cinquanta, in un contesto spesso ostile o, peggio, indifferente, in un momento in cui le energie creative tese al rinnovamento si scontravano con le difficoltà di una città nella quale la mancanza di un mercato culturale si univa all’imperare di una vieta tradizione pittorica di matrice ottocentesca. Faccio parte di quella generazione di artisti – continua Pirozzi – che con la sua vitalità e il suo anticonformismo, sottrasse Napoli alle stereotipate forme di un folclore senza più nerbo e significato, per inserirsi in un contesto di ricerca e di sperimentazione italiano, europeo, internazionale». Al contrario di molti suoi coetanei, Giuseppe Pirozzi è contento dei riconoscimenti cittadini. «Ricordo con piacere una mostra degli anni Novanta, strutturata e criticamente orientata, come “Fuori dall’ ombra”, che mise insieme opere disperse tra collezioni private, musei, case di eredi e studi d’artista, e che è servita da modello per la Galleria Civica che a Sant’Elmo si chiama “Napoli Novecento”, mostrando una generazione di artisti che si è mossa seguendo un’urgenza generazionale, intrecciando sogno, lotta e poesia, senza rinunciare al respiro mitologico di una città in cui l’eterogeneità e le dissonanze hanno sempre imperato». Giuseppe Pirozzi, nato nel 1934, formatosi presso l’Accademia di Napoli, allievo di Emilio Greco e, soprattutto, di Augusto Perez, di cui diverrà amico e sodale, nella prima parte degli anni Sessanta fu attratto dall’informale: «Un’esperienza che servì a liberarci dalla tradizione – afferma – e ad accostarci a quelli che erano i nostri miti giovanili, da Marino Marini a Henry Moore. Con le mie sculture astratte, ma dalle forme antropomorfe e inquietanti, partecipai al premio Spoleto, nel ’58 e nel ’61, e poi a una mostra voluta e curata da Raffaello Causa, che si tenne nel ’61 alla Casina Pompeiana, dove esposi “Danza spezzata”, una scultura materica, di metallo e cemento. Ma la figura umana, abbandonata, tornò ben presto, seppure in chiave diversa, destrutturata, resa per frammenti, inserita in elementi architettonici, in forme che ricordano il barocco napoletano». Negli anni della contestazione Pirozzi lavorò a una serie di “Contenitori”, dove una forma cilindrica, rigida, simboleggiava la regola e l’ordine, mentre verso l’alto esplodeva una massa magmatica e informe che fuoriusciva con dirompente forza anarchica. Esposti da Enrico Crispolti all’Aquila nel ’68, in una mostra famosa, “Alternativa sociale”, si imposero per la loro valenza metaforica, quasi di manifesto politico. Gli anni Settanta, invece, segnarono una sorta di ripiegamento verso l’indagine psicologica, un ritorno al privato. In quegli anni Pirozzi realizza sculture di piccole dimensioni in argento, creando una serie di gioielli preziosi e unici. In questo periodo nascono anche opere che diventano subito famose, come “Immagine alla deriva” e altre in cui una vena di tipo esistenziale e onirica si lega a forme di un rinnovato classicismo. Esposti a Milano, alla galleria Le Ore, vengono paragonate dai critici al “flusso di coscienza” joyceano. La storia delle trasformazioni della scultura in Pirozzi è la storia di una trasformazione anche personale e spirituale. Trasfigurare le forme, per ospitare una dimensione diversa dell’esistenza, avvicinandosi ai cicli del tempo e della natura. «Cominciai a lavorare sul senso della speranza, della vita. – chiarisce lo scultore – E così nacque il ciclo delle Germinazioni: il seme, l’albero, il frutto, una germinazione che dalla terra si tende verso la luna, un disco rappresentato al negativo, che accentua il contrasto pieno-vuoto». Negli anni Ottanta, a partire da “Riscoprire Psiche”, una figura che richiama la statua omonima del Museo Archeologico, Pirozzi comincia a porre sulle sue opere segni alfabetici, numeri, lettere: «All’inizio era un modo per sottolineare un titolo, un tema, forse anche un codice intimo, un intendere che la vita stessa è segnata da cadenze, ritmi, numeri, simboli». Pirozzi, ha sempre avuto modo di confrontarsi con le innumerevoli e diffuse tracce dell’arte e della storia antica. Parliamo di una delle sue mostre più recenti, presso il Museo Archeologico, dove ha ripreso gli “oscilla”, i dischi votivi che nell’antica Roma venivano appesi agli alberi in occasione delle feste di Bacco. «Non ho voluto solo “rivisitare” un genere – dice – concetto reso obsoleto proprio dai cambiamenti dell’arte contemporanea, quanto rendere visibile il percorso mnemonico: un intreccio di storia dell’arte e storia personale, che permette di comprendere come l’idea e la pratica dell’arte siano legate alla tradizione della ricerca, che parte dal mondo classico, per poi manifestarsi negli spazi dell’illusione. Vorrei – continua Giuseppe Pirozzi – che chi guarda viva un’esperienza totalizzante».
Gli auguro buon compleanno e riguardo l’insieme delle sue opere dove si intrecciano passato e presente, dimostrazione di una tecnica consapevole e di una forza drammatica, fantastica, onirica, capace di soddisfare il desiderio di memoria dell’osservatore, per arrivare a rappresentazioni che, rimettendo in gioco l’idea stessa di realtà, si caratterizzano come luoghi di osservazione e di svolta, dove Pirozzi, partendo da un immaginario arcaico, giunge a un immaginario teso ad ottenere il disvelamento del pensiero e dell’inconscio.