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in L.P. Nicoletti, Giuseppe Pirozzi. Preghiere di terracotta, Ubuart, n. 169, Ferrara, Comunicazione Stampa, 2018, pp. 5-8

 

Giuseppe Pirozzi è arrivato alla scultura in terracotta in una stagione matura del suo lungo percorso artistico e dopo una assidua frequentazione con l’arte del bronzo, di cui ha sondato tutti i segreti con minuzia di cesellatore e un rodato mestiere. Lo si notava bene in Rudera, la mostra tenutasi a Castel Sant’Elmo di Napoli a cavallo tra l’autunno del 2017 e l’inizio del 2018, accompagnata in catalogo da un fitto saggio di Enrico Crispolti, che era già stato tra i primi interpreti del suo lavoro, su cui torna a cinquant’anni dalla presentazione della personale alla galleria Il Girasole di Roma. In quel frangente Pirozzi, che Lea Vergine sulle pagine de “Il Pungolo” appena quattro anni prima aveva definitivo «già più di una promessa» (2 maggio 1963), era rientrato in un tentativo di lettura più generale da parte del critico della situazione della giovane scultura, in una rete di confronti con Rimondi e Rambelli, ma riconducendolo alla linea di sviluppo di una possibile “scuola” napoletana che faceva capo alla ricerca di Perez. Eppure, sin da allora, a differenza di quest’ultimo Pirozzi poteva rientrare anche dentro un’altra storia della scultura, ovvero quella che aveva messo da parte l’esperienza tattile per sondare le possibilità di una scultura di “costruzione” fatta per accumulo di immagini, fra prelievi oggettuali e citazioni, come a voler dare consistenza fisica ai meccanismi della memoria e della libera associazione surrealista. Erano per Pirozzi anni, ricorda Crispolti nel testo del 2017, di «figuralità frammentata e associativamente compositiva», in cui confluivano suggestioni di varia natura e varie combinazioni, oscillando fra sollecitazioni «iconico organiche» e spunti «meccanico oggettuali».
Il ricorso alla fusione era reso necessario dalla scelta di un processo creativo assemblaggista, perseguendo la via della narrazione attraverso la costruzione di immagini composite, fatte di preesistenze oggettuali e di citazioni figurali riunite in un’unica compagine plastica, ma arricchita di inediti interventi di manipolazione. La costruzione di un’immagine che non si limitasse alla modellazione tattile, infatti, richiedeva strumenti complessi, giochi di equilibrio che tengono coesa una struttura altrimenti precaria a cui serve la solidità di un momento unificatore dato dal passaggio in fonderia. Eppure anche questo non è un passaggio meccanico, perché una volta costruita la sua forma Pirozzi interviene anche sulla forma in cera prima della fusione, manipolando la materia riscaldata rendendola malleabile al tocco, in modo da arricchire la qualità materica della scultura e di inserirvi nuovi elementi. In qualche modo, egli unisce così strumenti adottati da altri scultori fra anni Sessanta e Settanta: reinventando il ready-made alla stregua di Alik Cavaliere, Pirozzi non rinuncia al segno della mano, al pari di Quinto Ghermandi, col quale si riscontrano numerose tangenze per quella stagione. Entrambi, per esempio, non disdegnano l’utilizzo degli scarti e dei residui di cera, sfruttandone la colatura spontanea e sottolineandone il vitalismo fiorito e organico, al pari di quanto Edgardo Mannucci aveva fatto saldando gli scarti di fusione in forme di memoria cosmica. La messa a punto di questo procedimento, che permea tutto il suo lavoro, dagli esordi alle grandi allegorie in gesso e poi in bronzo, fino alle terrecotte della maturità, assume però un connotato specifico diverso dagli esempi citati, rispetto ai quali affiora un elemento figurativo inedito che lo riavvicina, come osservava Crispolti, a quell’alveo della scultura napoletana di cui Perez avrebbe fatto da capofila. Nei Settanta, una volta chiarite le ragioni della sua scultura, Pirozzi sarebbe arrivato, come osserva sempre Crispolti (2017), a una scelta figurativa più esplicita, ma soprattutto a «un riscontro di memorialità compositva nei suoi affioramenti entro allusioni ambientali frammentariamente più esplicita». Dentro il magma della materia, che nei gessi degli anni Sessanta aveva peculiari sensibilità di ordine “barocco”, affioravano volti e frammenti anatomici come un momento di chiarificazione all’interno di una dimensione onirica, quasi di natura simbolista.
La logica narrativa, nel tempo, si è perfezionata per Pirozzi con l’inserimento di nuovi temi ma non è cambiata nella sua sostanza: anche una volta approdato alla terracotta colorata, giocata alternando ingobbi bianchi e neri al colore naturale del biscotto, il racconto si svolge sempre per accumulo di elementi, come se la scultura fosse diventata un deposito in cui le immagini si stratificano e assumono la loro sostanza di memorie liberamente sovrapposte. Allo stesso tempo, poi, si chiarisce la natura grafica della scultura di Pirozzi, che in molti casi diventa quasi un disegno a rilievo, in cui la forma è avvinta fra l’essere inglobata o fuoriuscire dal piano. Sempre Crispolti parla di «una consistente ricorrenza combinatoria oggettuale. Che si muove assemblagisticamente sul filo d’una sorta di estroversione memoriale, fra una svariata composizione di frammentarie squadrate risultanze d’oggetti. Memoria per accumulazione interferenze e compenetrante di frammenti oggettuali vagamente allusivi in una come di fatto smemorata quotidianità d’un passato appunto reificabile attraverso la ricorrente modalità di possibili combinazioni». La terracotta, oltretutto, ha offerto a Pirozzi la possibilità di un ulteriore sviluppo rispetto alla ricerca precedente: accanto alla scultura a tuttotondo, vero e proprio totem “ortopedico”, colonna o tabernacolo di ordinato accumulo, dominata da squadre e strumenti di misurazione come certe situazioni dipinte dal De Chirico metafisico o le isole di cubi e giocattoli di suo fratello Alberto Savinio, l’artista napoletano ha dato vita a una serie di grandi rilievi di oggetti, come metope allegoriche che superano la natura morta, o almeno la ripensano come accostamento di oggetti su un piano. È così che si giunge alla lunga serie delle “Preghiere”, piccole composizioni come cose fatte velocemente (nel tempo di una “preghiera” appunto) come pensieri concentrati in uno spazio ridotto e con umili oggetti. Estranei alla liturgia e all’iconografia del sacro, questi rilievi di minuta dimensione sono i nuovi approdi del racconto visivo, che ricordano la loro naturale radice nella cultura dell’informale, nella sensibilità epidermica per la superficie che si increspa, che dichiara la propria natura di materia manipolata con poveri mezzi, con gesto concentrato e assorto, frugale e intimo. Nel deposito della memoria, la vertigine della lista diventa un nuovo, riservato e non retorico racconto.